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Le vostre testimonianze

Liberi come falchi sulle vette immacolate

Non si trova a Cettigne né a Podgorica: l'identità dei montenegrini è più in alto. Per strappare l'anima ai falchi bisogna arrampicarsi sulle impervie cime delle Alpi Dinariche, violare le foreste, i canyon bui e profondi tra vallate e cascate di pietra, immergersi negli occhi azzurri dei laghi di montagna, facendosi rapire dalla stessa cappa di silenzio che si prova di fronte all'immensità del mare. Solo così di villaggio in villaggio, tra un bicchiere di rakija (grappa) e un piatto di kajmak (formaggio cremoso), si svela la vera natura degli "uomini delle montagne", come li ha chiamati il geografo Jovan Cvijic. E solo così il tempo si annulla e pare di sentire ancora stridere gli handzar (pugnali), i colpi di fucile, le grida cruente delle battaglie combattute su ogni guglia, pianura, bosco dai montenegrini contro i turchi per difendere la libertà. Sulle antiche mappe della Sublime Porta, piccole macchie verdi bordate di nero spiccano fra gli immensi domini ottomani dipinti di rosso: ecco il primo nucleo del Montenegro! Un pugno di uomini divisi in plemena (clan familiari e tribali) che preferiva il gelo e l'asprezza dei monti alla schiavitù delle valli e delle città tutte in mano ai turchi, che chiamavano quella regione maledetta e ribelle Kara dag. Come Asterix e Obelix nella Gallia di Giulio Cesare, i montenegrini lottavano contro un nemico più forte ed astuto, che riuscivano a sconfiggere solo protetti dai santi guerrieri, guidati dalla fede dei vladika, i principi-vescovi, e da uno smisurato coraggio e orgoglio che faceva assomigliare le tribù balcaniche ai clan scozzesi, cui erano insolitamente vicine anche nell'abbigliamento per la strouka, un mantello di lana a frange simile al plaid britannico. Non era facile sopravvivere per questo manipolo di pastori, il cibo scarso e gli inverni lunghi e gelidi al riparo dei katun, primitive abitazioni fatte di sassi o di legno.

I katun ancora oggi caratterizzano il paesaggio montano del Montenegro, sono rocce tra le rocce, picchi tra i picchi, igloo triangolari nei ghiacci di pietra. I tetti spioventi e aguzzi per far scivolare la neve li fanno assomigliare a castelli di carte sparpagliati alla rinfusa da un mago bizzarro per boschi e vallate. Non c'era tempo, non ci si poteva permettere un'architettura più sofisticata perché, quando il nemico arrivava nei villaggi abbandonati in tutta fretta, poteva incendiare e distruggere solo un cumulo di legno e pietre. La stessa Cettigne, storica capitale della Crna Gora (Montenegro), ancora agli inizi dell'Ottocento possedeva soltanto un monastero e qualche centinaio di casette. E che imbarazzo con l'arrivo di Napoleone nelle Bocche di Cattaro (1807-1813) alla richiesta francese di una rappresentanza diplomatica: dove e come e ospitare il raffinato console parigino? Le prime descrizioni del popolo montenegrino di geografi e viaggiatori paiono scaturite da un romanzo d'avventura: "Il tipico montenegrino", scrive Antonio Martini alla fine dell'Ottocento, "ha la pelle di colore assai carico, abbronzato dall'aria o dal sole: il piede lungo, largo, piatto, poco piacevole in conseguenza della marcia a piedi sulle scoscese e della calzatura più che primitiva che è in uso nel paese. Ha una forza considerevole dovuta alla sobrietà più che all'alimento, alla grande capacità respiratoria, al continuo esercizio muscolare, all'atavismo.

La sua agilità è meravigliosa anzi a tal segno che affrontando ogni rischio di rupe in rupe scalfisce, rimbalza come un cammello, senza che il peso delle gravi sue armi nuoccia al suo equilibrio o diminuisca la destrezza. Egli a digiuno può marciare un'intera giornata accontentandosi di un pasto frugale di cipolle, di pane di mais e di patate. L'orgoglio di razza é un sentimento anche troppo spinto del proprio valore, idee cavalleresche inculcate sin dall'infanzia, danno al sembiante e all'incedere del montenegrino un non so che d'elevato e di dignitoso che lo segnala agli occhi dello straniero" . I vojoda o "duchi", a capo delle plemena, ostentavano una ricca uniforme con lucide giubbe rosse a maniche ampie (jaketa),gilet ricamati d'oro (dzamadan) e corazza a maglie d'argento (toke), ma alla nobiltà d'aspetto e di sentimenti patriottici corrispondeva un carattere violento e spietato, caratteristico della razza dinarica. Il loro valore si misurava da quante teste riuscivano a mozzare ai turchi, e i macabri trofei venivano esposti sino a decomporsi su una torre all'ingresso di Cettigine. Lo stesso trattamento era riservato a chi abbandonava la fede ortodossa per abbracciare quella di Maometto, come nella famigerata notte di San Bartolomeo, alla vigilia di Natale del 1712, quando delle truppe al comando del vladika Danilo vennero sgozzati più di dieci mila montenegrini convertiti all'Islam. Il ricordo di quella sanguinosa notte venne immortalato dal sommo poeta e vladika Petar Petrovié Njegos nel poema epico "Il serto della montagna" i cui versi, recitati prima delle battaglie al suono del gusle, strumento a corde tradizionale, divennero una specie d'inno nazionale per i montenegrini e per tutti coloro che lottavano contro l'oppressione turca. Non bisogna guardare al Montenegro come ad un'entità unica, bensì fortemente frammentata: il territorio era diviso in quattro regioni che i turchi chiamavano nahije : più a nord la Ljesanska, al centro la Rijecka e la Katunska, che comprendeva Cettigne, e ad oriente verso il lago di Scutari (Skadarsko Jezero) la Crmnicka. In ogni regione vivevano tribù diverse, spesso in lotta tra loro, in un variegato sistema di alleanze che le vedeva ora vicine a Venezia, ora a Mosca e anche al pascià di Scutari quando se ne presentava l'opportunità.

Vi era persino una specie di rivalità tra il Sud e il Nord del Montenegro, che versava in condizioni di maggiore arretratezza, e i cui abitanti venivano chiamati con disprezzo stojseri (letteralmente "coloro che defecano stando in piedi"). Differenze profonde, forse oggi difficili da cogliere, ma che sono rimaste nei cognomi, nella mentalità e nelle scelte politiche dei montenegrini sino ai giorni nostri. Le diversità non impedirono però di creare una forte identità nazionale, e non fu solo la coscienza di un nemico comune, ma anche il desiderio di libertà, l'orgoglio, l'attaccamento morboso alla propria terra il cemento su cui la reale dinastia dei Petrovié Njegos fondò lo Stato del Montenegro. Dal 1696 al 1918 i Petrovié Njegos guidarono le sorti del paese con sette gospodar (signori), di cui cinque vladika, Danilo, Sava, Basilio, Pietro I e Pietro II, e due principi (knjaz), Danilo I e Nicola I. Pietro I venne proclamato Santo dalla chiesa ortodossa. I vladika guidavano il paese da Cettigne, impartivano ordini dal grande monastero (fondato due secoli prima dal principe Ivan Crnojevic), simbolo del potere spirituale e temporale, dove oggi rimangono le più significative testimonianze storiche del Montenegro. Nella formazione dello Stato e dell'identità montenegrina, così come l'ortodossia, un ruolo importante giocò il Mediterraneo. Dall'alto delle vette immacolate, dal sacro monte Lovcen, gli "uomini delle montagne" guardavano il mare e ne erano attratti e respinti allo stesso tempo. Avvertivano le differenze profonde tra loro e chi abitava la costa, ridevano delle mollezze e delle incomprensibili raffinatezze dei latini che si "abboffavano" di gallina lessa invece di saziarsi di abbacchio arrosto e brindare con la rakija sotto il cielo stellato del Durmitor. Ma quando scendevano a Cattaro (sebbene fossero costretti a lasciare le armi per entrare nella città e ad abbandonarla prima del tramonto) per vendere carne, formaggi escoranze, pesce del lago di Scutari, nel grande mercato fuori dalle mura, da quel mondo cercavano di assorbire e recepire il meglio. E così le culture, le parole del Mediterraneo sono penetrate nei villaggi più sperduti dei Ba1cani. Lo testimoniano più di quattromila termini di derivazione veneta, che ancora fanno parte del linguaggio comune in Montenegro: lenzuolo, asciugamano, pirun (forchetta), gat (bicchiere), oris (riso), pamidora (pomodoro).

La Repubblica Veneta divenne non solo un alleato prezioso nella lotta contro l'Impero Ottomano, ma anche un punto di riferimento culturale, dove i principi montenegrini venivano ad apprendere la cultura occidentale. Furono le relazioni dei provveditori della Serenissima, nel XVIII secolo, a far conoscere il paese in Occidente, e pare siano stati proprio i marinai veneti a battezzare il "Montenegro", nome che poi sarebbe stato tradotto in tutte le lingue. La parola deriverebbe dalla profonda e, forse, tetra sensazione di mistero delle alte e nuvolose cime viste dal mare, orlate da centinaia di pini neri dal colore scuro. Alberi alti, imponenti, diversi l'uno dall'altro tanto da poterli contare, che paiono schierati come soldati a difesa dei canyon, delle profonde gole, dell'immensità delle montagne, di una realtà e di valori forse non ancora del tutto perduti. Che rimane di quel mondo epico? Chi vive oggi nei boschi, sui monti, nei katun? Cosa resta dei valori romantici raccontati dai viaggiatori dell'Ottocento, delle poesie di Njegos, dei monasteri persi sulle vette dei monti?

Nicolò Carnimeo
Giornalista

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