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Il Tara: con Dusan sulla "lacrima d'Europa"

Dusan abita in una casa di legno appena fuori della macchia fitta e nera della foresta, in una radura tagliata come una verde fetta di prato sul ripido profilo della montagna. Dalle cime dei pini spunta la croce ortodossa di una chiesa, e qua e là qualche casetta dal tetto spiovente. Ma la sua dimora è inconfondibile perché costruita sul canyon, proprio sul ciglio del precipizio, tanto che affacciandosi dalla finestra ti prende un senso di vertigine a vedere il Tara, in basso, che pare un rigagnolo. L'hanno avvisato del nostro arrivo, ci accoglie calorosamente. È un uomo magrissimo e canuto dai movimenti quasi sbilenchi e la schiena curva. Ma basta una nodosa stretta di mano per intuirne la forza, sentire i fasci dei tendini tesi come corde di violino. S'illumina, appena inizia a parlare del suo fiume, il Tara: "Lo senti", dice all'improvviso indicandone con la mano la direzione, "forse ci ascolta". Parole e sguardi sono pieni delle migliaia di volte che l'ha disceso e poi è tornato qui, a piedi, attraversando valli e foreste. Ogni viaggio un'avventura, per l'unica via d'acqua capace di superare le montagne che portava la sua zattera di legno, per seicento chilometri, ad affrontare le rapide del Tara, della Drina, della Sava e poi del Danubio, sino alle porte di Belgrado, dove i preziosi carichi di legname montenegrino erano venduti.

"Tutto bene durante l'estate", continua Dusan, "ma con le piene autunnali e primaverili, quando le gole si gonfiano di schiuma e la zattera corre all'impazzata tra le due pareti del canyon come la palla d'un flipper, ci si può rimettere la pelle. Chiamano il Tara "la lacrima d'Europa", ma la sua purezza non è l'unica ragione....". Diviene cupo: troppi scogli e sassi lungo il fiume portano i nomi di amici fraterni e, come lapidi alla memoria, gli ricordano i volti, i sorrisi di chi ci si è schiantato per stanchezza, azzardo, forse destino o troppo coraggio. Dusan accetta di scendere il Tara con noi. Arriviamo sino alle sue sponde, dove sono ormeggiate moderne e sicure zattere con due grossi tubolari di gomma arancioni ai lati. "No, non è cattivo il fiume", rassicura mentre afferra la barra del timone e il suo braccio diviene una cosa sola con quel lungo pezzo di legno, "solo non si può domare, bisogna assecondarlo, accarezzarlo, navigare tra le pieghe delle rapide, saper leggere i gorghi, i mulinelli di corrente.

E anche il vento, che a volte come in un imbuto s'incanala veloce nelle gole, ti viene di fronte ed ingaggia battaglia con la correntemente mentre la barca rimane quasi ferma, ingovernabile, e non resta che bestemmiare, lottare invano con sfibranti colpi di remo" . Il Tara scorre lento, cristallino, un unico specchio con il cielo i cui profili vengono disegnati dalle alte vette del canyon da cui spiccano centinaia di pini neri. Le alte pareti a strapiombo, invece che far paura, ti rassicurano mentre rimani incantato da decine di fiabesche cascate, come se le montagne stesse fossero spugne coperte di muschio. La luce va via per un attimo, una nuvola bianca e densa segue curiosa la nostra barca, dall'alto, a metà tra il fiume e la cima dei monti, e taglia il paesaggio a metà. "Conosco questo fiume palmo a palmo ", riprende il barcaiolo, "le radici divelte, i ponti crollati, i tronchi conficcati nel greto delle acque sono una specie di segnaletica, indicano o narrano qualcosa. Vedi quei tre massi, per esempio, parlano di una tragica storia d'amore. Due sorelle, Bojana e Trojana, si erano invaghite l'una all'insaputa dell'altra di un giovane pastorello, Radovan, che usava esprimere il suo amore chiamando l'amata con il suono del flauto. Una sera, all'imbrunire , una delle due ragazze udì dall'alto del canyon l'amoroso richiamo e, capendo d'esser stata tradita, si gettò nelle acque vorticose del Tara. L'altra sorella, di fronte a quel gesto disperato, non esitò a lanciarsi nel vuoto, seguita dal suo giovane amante". Dusan zittisce. Da lontano, un effervescente fragore si fa intenso, le rapide si avvicinano. Ci aggrappiamo a grosse maniglie: già s'intravede il veloce dislivello dove pare che l'acqua venga risucchiata dal fondo del fiume. Ci siamo: gli occhi del nostro Caronte dardeggiano fulmine i seguiti da rapidi scatti del capo, mentre il corpo rimane in agguato. Ma basta qualche lieve e deciso colpo di remo e, in men che non si dica, siamo fuori pericolo. Poco più in là, dopo una grande ansa, appaiono le cascate di Sige Bailovica: l'Eden si materializza davanti ai nostri occhi ancora lucidi e segnati dall'emozione. Dopo circa centosessanta chilometri siamo quasi al confine con la Bosnia, dove termina il nostro cammino. All'imbrunire i colori vivi del giorno si stemperano in un'atmosfera argentata e, alzando lo sguardo, pare che le cime triangolari delle montagne, combaciando con il buio, si chiudano lentamente come enormi fauci affamate di notte.

Nicolò Carnimeo
Giornalista

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